Elementi per la costruzione di realtà alternative. Il Barocco e le Avanguardie |
Le tematiche che ho trattato finora e quelle di cui mi occuperò
a partire da questo momento gravitano intorno ad un centro o denominatore
comune che a mio avviso è sia l’elemento distintivo della
cultura barocca sia una componente rilevante della cultura contemporanea:
l’ambiguità.
Il culto dell’acutezza, ad esempio, rientra in questa ottica, in
quanto la metafora può essere considerata una metamorfosi verbale.
Un po’ come accade in alcuni esseri viventi, i quali abbandonano
la struttura embrionale e raggiungono la forma matura attraverso il disfacimento
e la formazione dei tessuti, nel processo metaforico le parole abbandonano
il loro significato primario ed immediato per assumerne uno nuovo, ampliato
o differente e curiosamente il risultato rimane culturalmente impresso
nel “codice genetico” della parola, pronto a manifestarsi
non appena le condizioni poetiche siano date. Attraverso la sinestesia
le parole diventano in Góngora la via d’accesso a mondi esistenti
ma dimenticati, in Diego, invece, una sorta di materiale di risulta del
mondo convenzionale riorganizzato in combinazioni inedite.
La metamorfosi (definitiva, reversibile o multipla) può essere
considerata anche nella sua semplice essenza di suggestivo soggetto narrativo.
I testi che ho analizzato nelle sezioni precedenti offrono dei buoni esempi.
Abbiamo visto come la Fabula de Polifemo y Galatea di Góngora
affronti direttamente l’episodio mitologico della trasformazione
del sangue del giovane Acis in sorgente d’acqua cristallina, benché
l’autore ne parli solo nell’ultima ottava! Nel Sogno di una
notte di mezza estate di Shakespeare poi la mutazione della testa di Bottone
in quella di asino è un momento culminante dell’intreccio,
motivo di comicità, atto di burla punitiva (di Oberon nei confronti
di Titania) ma soprattutto occasione di riflessione, raccolto ed approfondito
poi da García Lorca ne El público. Quando, infatti, l’Hombre
2 chiede al Director: si riferisce precisamente a quel fiore che opera l’incantesimo
del Sogno: È la magia dell’amore incondizionato che non conosce limiti
di intensità né di forma, su cui, abbiamo visto, è
costruito l’intero dramma di García Lorca. Il problema è
che solo chi prova questo sentimento nella sua purezza (come se il succo
si fosse sparso sulle sue ciglia) è in grado di amare senza disagio
esseri tanto diversi dai “canoni convenzionali”. Chi non ama
autenticamente sarà capace di cogliere solo lo scarto delle aspettative. El público è popolato da una grande quantità di
figure e di personaggi, ma nella loro sostanza non sono altro che due
esseri che amano (il Direttore è anche Enrique, Figura de Cascabeles,
Dominga de los negritos, Traje de Arlequín ecc.) Una frase per
tutte: Fin qui un breve ex-cursus riassuntivo di ciò che ho già
trattato nelle sezioni precedenti. In questa sezione tuttavia, dato che
sia in epoca barocca che in quella contemporanea il culto per l’immagine
raggiunge un innegabile primato, mi sono posta l’obiettivo di trattare
il tema della metamorfosi da un punto di vista meno letterario e più
visuale. Le “macchie di Leonardo”. La storia tramanda un aneddoto significativo, registrato per la prima
volta da Plinio il Vecchio: il pittore Protogene da Rodi non riuscendo
a riprodurre la bocca schiumosa di un cane, lanciò indispettito
la spugna sporca di colori sul quadro e il caso volle che la spugna dispose
i colori con quella naturalezza che il pittore tentava invano di raggiungere.
L’episodio è citato anche nel Trattato della Pittura di Leonardo
da Vinci, il quale commenta: Si tratta cioè di quel procedimento mentale che ci permette di
riconoscere nelle nuvole o nelle macchie di umidità non solo le
silhuettes di oggetti o esseri viventi che appartengono al mondo fenomenico,
ma anche l’azione che stanno compiendo (un albero che si piega al
vento, un uomo che dorme, una tigre che salta, un volto che ci osserva
e così via). È, in fondo lo stesso meccanismo che ci consente
di stare di fronte ad un quadro e di “vedervi” un ritratto
invece di una cozzaglia di colori applicati ad una superficie, di contemplare
una scultura e di “vedervi” la Pietà e non un semplice
blocco di marmo. Le fasi di osservazione, comparazione e correzione che si susseguono
incessantemente si manifestano nello spettatore ma soprattutto nell’artista,
il quale è il primo spettatore, nonché testimone della trasformazione
in divenire che subisce la sua opera. A questo proposito mi viene in mente
un’osservazione che M. Brusatin fa a proposito dell’immagine
di se stessi riflessa nello specchio (il passaggio si riferisce alle dame
medievali che non conoscevano che specchi convessi e quindi deformanti): L’atto del guardarsi allo specchio, quindi, è il primo e
il più istintivo atto creativo umano: a mio avviso l’operazione
di modifica che si compie su se stessi (cosmesi, pettinatura, abito) coincide
con quella che compie qualsiasi artista nei confronti del mezzo espressivo
che sta utilizzando (pittura, scultura, musica ecc.) in quanto ogni intervento
di natura estetica presuppone un “attore” ed uno “osservatore”,
una mediazione tra un agente e un ricevente. La bravura di un artista
allora sta nella capacità di indurre lo spettatore a vedere/sentire
ciò che egli (l’artista) vuole, nonostante l’inevitabile
incomplettezza (causata dai limiti intrinseci dei suoi mezzi) delle immagini
che egli propone. Nel caso di un quadro: Per tornare al concetto delle cosiddette “macchie di Leonardo”,
dunque, queste non sono solo macchie; possono essere qualunque insieme
di colori, linee, luci ed ombre che per un suggestivo caso si raggruppano
nella nostra mente secondo una “gerarchia” inedita formando
nuove immagini. Sono una sorta di sinestesia visuale il cui risultato
dipende dall’esperienza privata di ciascun osservatore e dalla sua
sensibilità. La meraviglia sta in quella fulminea trasformazione
da una forma (più o meno definita) all’altra e nel fatto
che l’una presupponga l’annientamento dell’altra. Infatti, nel momento in cui percepiamo questo volto la frutta, i pesci,
le quaglie cessano di esistere. Mi sembra rilevante il fatto che i suoi
quadri ebbero un grande successo soprattutto presso la corte di Rodolfo
II di Boemia, un centro culturale frequentato anche da maghi, filosofi
ed alchimisti impegnati, com’è noto, a sondare i misteri
e i meccanismi della trasformazione più ambita (e più mitica),
quella dai metalli poveri all’oro. In un certo senso gli oggetti di meraviglia raccolti ed esposti sono
caratterizzati da un’inclassificabile deformità (il meraviglioso
che non ha ancora una spiegazione) o da una forma così speciale,
evocativa ed ingombrante da prevalere sulla loro vera natura. Vi troviamo
bezoari (cioè calcoli di capodogli e ruminanti), lacrime di cervo
(ovvero gocce di ambra ricurve), unicorni (ovvero rostri di narvalo),
basilischi (ovvero razze essiccate e modellate), uomini “lillipuziani”
(radici di mandragora), scheletri di giganti (ovvero ossa di dinosauri
o di cetacei). Ma vi troviamo anche le
L’interpretazione delle forme indefinite è un atto istintivo
e naturale e forse per questo motivo ha catturato l’interesse degli
studiosi di psicanalisi: sono celebri ad esempio, le tavole di Rorschach,
macchie di inchiostro casuali o speculari che il paziente è invitato
ad interpretare rivelando inconsapevolmente allo psicanalista la sua natura
caratteriale e le sue ossessioni. Tali rocce non solo ispirarono alcuni soggetti di quadri famosi (alla
Roccia del Sonno (Fig. 1), ad esempio, si può ricondurre la forma
inquietante che domina Il Grande Masturbatore o la Persistenza della memoria
o a quella epidermica del Sonno (Fig. 2)), ma anche l’estetica daliniana
in cui coesiste la qualità del duro (la resistenza intrinseca della
pietra) e del molle (la plasticità causata dall’erosione
naturale) e l’idea che sta alla base del suo metodo paranoico-critico
(che analizzerò più avanti). Lo stesso Dalí, a questo
proposito, commenta così la fotografia di un paesaggio roccioso
sopra la quale delle macchie di inchiostro, applicate di suo pugno, riproducono
i profili evocatori degli scogli: D'altronde Dalí provò fin da bambino un’irresistibile
attrazione per le forme indefinite. Vita Segreta di Salvador Dalí
è un testo autobiografico fondamentale per avvicinarsi alla personalità
eccentrica dell’artista; gli eventi descritti sono spesso falsati
e tesi a costruire la personalità diabolica e geniale che da sempre
si era imposto di raggiungere (c’è un capitolo intitolato
Falsi ricordi di infanzia, una sorta di sogno ad occhi aperti talmente
particolareggiato da sembrare, al lettore, più vero del vero!),
ma le pagine romanzate di questa vita rappresentano una fonte considerevole
per scoprire l’origine della sua particolare estetica. Ad esempio,
raccontando dell’espediente a cui ricorreva per astrarsi dal repellente
ambiente scolastico, conferma l’origine della sua estetica: Da questo momento in poi ogni cosa che colpisce ed attiva la sua immaginazione
non verrà descritta quale è nella sua vera natura ma come
la sua fantasia la percepisce ed elabora: Questo passo delirante, ad esempio, è la descrizione dell’approssimarsi
delle nuvole di un potente temporale. Il “segreto della natura” è spiegato in una nota a
piè di pagina dello stesso Dalí: Da questo punto di vista anche i quadri più inquietanti di Dalí
possono risultare perfino molto ludici: la chiazza rosa (Fig. 4) che domina
il quadro Senicitas (1926), a prima vista viene colta come un torso dagli
arti mozzati; poi ci si rende conto che altro non è …che
quello che è, una struttura amebiforme: il nostro cervello ha sintetizzato
il colore, le ombre che disegnano la consistenza molle e tesa della pelle,
i tratti sottili, rossicci, disposti a semicerchio che ricordano dei capezzoli
e le zone più grigie che sembrano sottolineare dei muscoli addominali.
Se si osserva meglio questo ultimo particolare emerge la testa di un uccello
che sembra avere il corpo imprigionato sotto la pelle, poi si concretizza
il disegno di un’ala e quello di una mano rossa che si aggrappa
ai muscoli, che si rivela essere la zampa di un altro uccello semitrasparente.
Per apprezzare un quadro di Dalí bisogna avere pazienza, tempo,
curiosità, spirito di osservazione e anche il desiderio di lasciarsi
tradire dalle prime impressioni. Uno dei punti cruciali della poetica barocca fu il movimento, il fluire
delle cose nello spazio e nel tempo, un concetto che non solo viene rappresentato
ma anche provocato nello spettatore, il quale per poter apprezzare le
opere d’arte nella loro totalità è costretto a spostarsi
alla ricerca di nuovi punti di vista. L’interesse inaudito per l’ingrediente
spaziale, fonte primaria di meraviglie, deriva certamente dalle scoperte
astronomiche e dalle speculazioni filosofiche ad esse connesse che hanno
allargato gli orizzonti di indagine da uno spazio finito e concluso ad
uno aperto e infinito. La natura è animata da una mutazione continua che per realizzarsi
ha bisogno di uno spazio infinito: Non esiste quindi stacco o differenza tra il punto e il corpo: è
il movimento ciò che li unifica e che li fa passare uno nell’altro.
In epoca barocca l’illusione prospettica viene impiegata soprattutto
per moltiplicare i punti di vista con lo scopo di indurre (e non rappresentare)
l’infinità dell’estensione spaziale, sottolineando
la continuità tra lo spazio fittizio e quello reale, abbattendo
idealmente qualsiasi impedimento fisico si ponga tra l’osservatore
e il soggetto rappresentato. J. Baltrušaitis osserva che la prospettiva
si sviluppa in seno ad una contraddizione: da una parte dall’altra Cioè essa è uno studio razionale della realtà oggettiva
e dei meccanismi visivi che ci permettono di percepirla così come
la percepiamo; ma anche un metodo che attraverso la deformazione degli
oggetti rappresentati ci consente di osservarli come se fossero perfetti.
Tali composizioni (specialmente pittoriche) esigono quindi due o più
tempi di osservazione ed uno spostamento rilevante dello spettatore nello
spazio. Viste di fronte le opere anamorfiche (Fig. 5) appaiono come una
mescolanza confusa di forme dilatate, di linee prive di senso e di chiazze
di colore applicate a caso; la tendenza è però quella di
alludere a qualcosa di sensato anche in questa fase di osservazione, trasformando
ad esempio, nel limite del possibile, le striature colorate in un paesaggio.
Non appena però ci si sposta in una posizione fortemente laterale
rispetto all’opera e la si osserva di sbieco, quasi in maniera radente
alla superficie pittorica, ogni elemento si ricongiunge in una nuova immagine
che pare balzar fuori dalla superficie pittorica parallela al nostro sguardo.
l’immagine, completamente sfaldata sul supporto pittorico, viene
ricomposta e corretta dal riflesso dello specchio cilindrico opportunamente
sistemato sulla superficie: dal caos emergono delle forme esatte e fluttuanti
e Padre A. Kircher (1602-1680) è l’inventore di uno strumento prospettico, il mesoptico, grazie al quale si possono letteralmente costruire “paesaggi anamorfici”, cioè luoghi dove alberi, piante, strade, edifici, rocce, fiumi ecc., se visti da un punto determinato, concorrono a formare figure specialmente antropomorfe. Alcuni dei disegni che egli stesso tracciò (Fig. 6) non possono non farci ricordare i ritratti dell’Arcimboldi sottolineandone il fascino intrigante e la sottigliezza concettuale di queste buffe immagini. Immaginiamo di passeggiare lungo i bordi del giardino progettato da padre Kircher ed improvvisamente, sollevando gli occhi, vedremo la roccia farsi barba, l’albero farsi sopracciglio, la casa farsi bocca. Immaginiamo di avvicinarci ad una tavola su cui sono ammassati disordinatamente degli ortaggi e, appoggiate le mani sul bordo del tavolo, scopriremo che la carota vista da lì sembra un naso, il cavolfiore sembra un orecchio e l’insalata una chioma di riccioli. Le prospettive anamorfiche sono l’equivalente pittorico della folgorante intuizione di un concetto in una poesia barocca o di una metafora creazionista.
A mio avviso le famose immagini doppie sulle quali si concentrò
parte della ricerca estetica daliniana si relazionano in maniera evidente
con le opere di prospettiva anamorfica, specialmente con i paesaggi progettati
dal Padre Kircher. L’ipotesi può trovare conferma nella notizia
riportata da Descharnes secondo la quale ad un certo punto Dalí
ebbe tra le mani un trattato sulle trasformazioni ed aberrazioni ottiche,
il Magia Naturalis di Giambattista Della Porta, testo del XVI secolo,
di fondamentale importanza per gli studiosi della prospettiva anamorfica
e per lo stesso Kircher. In un certo senso Spagna (1938) è composto con lo stesso espediente: Dello stesso anno è L’immagine svanisce in cui la posa riflessiva
di una donna che tiene tra le mani un oggetto dalla forma fiammeggiante,
forse un foglio di carta, lascia emergere un volto antico alla maniera
dell’Arcimboldi. Oppure A parte l’ironia che c’è dietro a questa definizione
altisonante, composta da termini tra loro contraddittori, la paranoia
critica è una sorta di modo di porsi nei confronti del mondo oggettivo
che ci consente di interpretare un unico fenomeno in molteplici modi,
tutti accettabili, a seconda delle circostanze esteriori ma soprattutto
interiori. M. Jean la spiega in questi termini: Con il metodo paranoico-critico il procedimento mentale delle macchie
di Leonardo e della prospettiva anamorfica si fondono e producono i quadri
più spettacolari di Dalí, di fronte ai quali lo spettatore
vede emergere e susseguirsi un turbinio di figure più o meno distinte,
più o meno riconoscibili (alcune più delle altre) a seconda
del suo background di esperienze ed ossessioni, o più semplicemente
a seconda della sua abilità associativa. Descrivere i quadri di
questo periodo è impegnativo. In certi casi i titoli suggeriscono
alcune delle figure che si possono rintracciare nell’opera ma di
certo non esauriscono l’elenco già che l’idea che sta
alla base della loro creazione rimette ogni interpretazione all’osservatore.
rimarcando così che rispetto ad alcuni alienati era in grado di gestire in maniera pienamente consapevole, creativa e produttiva la sua tendenza ad avere allucinazioni, visioni, ossessioni e manie. Chi osserva le composizioni di Dalí non solo può ricostruire i passaggi da un’immagine all’altra ma le immagini si arricchiscono a vicenda; lo spettatore non si scorda di ciò che ha visto, lo può ritrovare in ogni momento perché sa dove andarlo a cercare, o meglio, sa in che modo trovarlo. Note.
|