Elementi per la costruzione di realtà alternative. Il Barocco e le Avanguardie |
IL TEATRO COME METAFORA DI VITA
Tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo cominciò a prendere
corpo un’opinione che riscosse ampio successo e diffusione nella
mentalità barocca: l’idea che il mondo sia un enorme palcoscenico
dove gli esseri umani recitano una parte che essi chiamano vita.
F. Angelini 1 segnala che questo tema appare già nell’Elogio
della Follia Erasmo da Rotterdam (1466 ca.-1563), un testo pubblicato
nel 1511 e dedicato dall’autore all’amico Tommaso Moro, dove
la Follia tesse l’elogio di se stessa in quanto ritiene di dominare
su ogni aspetto del vivere umano privato e sociale. Di questo testo tralascerò
la polemica nei confronti del clero e della Chiesa di Roma che lo caratterizza
e mi soffermerò invece su quei passi che accennano alla non autenticità
dei rapporti sociali, che sta alla base dell’idea che la vita sia
una recita più o meno inconsapevole. Fedele ancella della Follia è la Filautìa, l’amor
proprio; esse agiscono congiuntamente. oppure nei confronti delle mancanze del coniuge: L’amor proprio invece ci consente di amarci per quello che siamo,
porta all’accettazione dei nostri difetti e al non provare il disgusto
di sé: Secondo Erasmo, quindi è la Follia che ci istiga ad autoilluderci
e ad ingannare gli altri, a riconoscere come conveniente al buon vivere
civile una condotta di vita che si basa sulla menzogna e sulla presunzione.
Nel capitolo 29 illustra con abilità …la saggezza paradossale
di questa follia: Ecco quindi che la follia consiste nel mostrare la verità senza
tener conto delle conseguenze: in fondo se esistono delle apparenze è
perché la sostanza che vi si cela dietro non è gradevole
e l’uomo è un essere pieno di difetti che è costretto
a mascherare per poter sopravvivere. L’ambiguità dell’essere
umano, l’incongruenza tra il suo apparire e il suo essere, è
dunque un dato di fatto ineluttabile; le regole sociali si reggono su
verità fittizie (costruite per raggiungere una parvenza felicità),
si basano su dei meccanismi di scambio interpersonale convenzionali, controllati,
prevedibili e per questo non autentici, “pilotati” dalla convenienza,
proprio come le relazioni che un autore ha stabilito a priori tra i personaggi
di una commedia teatrale, per garantire all’azione il raggiungimento
sicuro del lieto fine. Da qui il mito del gran teatro del mondo. Questa ultima affermazione è molto importante sia perché allude ai meccanismi teatrali, cioè agli espedienti di finzione su cui si basa la convenzione teatrale, sia perché accenna all’immagine tipica dell’interpretazione teologica delle azioni umane.
Tra coloro che diedero la più illustre forma artistica all’interpretazione
religiosa della “recita della vita” va ricordato soprattutto
Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) autore de El gran teatro
del mundo, un auto sacramental rappresentato nel 1649. Se Dio è una sorta di direttore di scena, è colui che assegna
le parti il Mondo è sia il luogo in cui si svolgerà la rappresentazione,
sia una sorta di assistente di scena che, collaborando con l’Autore,
fornirà i costumi agli attori e le scenografie (aparencias). Ogni
cosa è organizzata a metafora della vita, perfino le entrate e
le uscite degli attori: Coloro che interpreteranno la commedia si presentano di fronte al divino
Autore come esseri informi, fatti di una stessa materia che attende di
essere plasmata in una forma definita. Da ciò, da una situazione
di partenza uguale per tutti, derivano le lamentele di chi si è
visto assegnare una parte meno fortunata, come il Povero o il Contadino. Per Calderón, quindi, la commedia della vita consiste nell’interpretazione di un ruolo assegnato da Dio, che ciascuno di noi compie in maniera più o meno diligente a seconda di quanta attenzione pone nel seguire la legge divina. La visione contemporanea. È ormai noto come le deduzioni a cui giunse Freud attraverso le
sue ricerche intorno alla psiche umana causarono una vera e propria rivoluzione
culturale, una “ferita narcisistica” decisiva inferta all’uomo
del XX secolo e della cui portata lo stesso Freud ebbe coscienza. Egli
infatti, riassumendo i momenti salienti in cui si sarebbe verificato il
sovvertimento della visione classica dell’uomo, colloca le sue scoperte
accanto a quelle di Copernico e di Darwin. Nel modello eliocentrico la
terra e l’umanità perdevano la loro storica centralità
diventando parti dell’universo prive di rilevanza rispetto alle
altre; la genealogia darwiniana collocava l’uomo sullo stesso gradino
delle altre creature terrestri, in quanto appartenente al regno animale
e non più discendente di Dio; la teoria psicoanalitica, infine,
rivelava un uomo che non è più nemmeno interamente padrone
della propria interiorità, in quanto insidiato da passioni e da
emozioni che relativizzano il ruolo della razionalità.
La frantumazione dell’interiorità umana colpì l’immaginario
collettivo ed influì in maniera decisiva sulla produzione artistica
e letteraria dei primi tre decenni del Novecento. Un geniale interprete
del clima instaurato da queste nuove teorie è certamente Luigi
Pirandello la cui opera riscosse un successo internazionale suggestionando
e ispirando nutrite schiere di autori. La sua riflessione intorno alla
realtà si allarga all’uomo, vittima anch’egli dello
scarto tra sostanza ed apparenza, del relativismo della verità,
della costrizione di appartenere a forme predefinite, catalogate, che
lo imbrigliano in un ruolo assegnato dall’esterno. Pirandello lo
coglie proprio nell’attimo in cui prende coscienza del suo stato
cioè quando l’uomo, di tanto in tanto, esce da se stesso,
sta ad osservarsi e si accorge della convenzionalità dei valori
accettati, dei ruoli assunti e imposti, delle istituzioni che reggono
la vita associata: Se l’uomo del barocco accetta in maniera più o meno consenziente
la maschera che la società gli richiede e, anzi, la indossa come
difesa e copertura dei propri difetti, l’uomo contemporaneo la percepisce
come un involucro plastico e rigido, che lo limita nei movimenti, che
non fa concessioni alla sua anatomia, che gli sia appiccica sul viso lasciandolo
penamente respirare: è cioè una costrizione, una violenza
a cui si deve piegare inevitabilmente. Nel 1925 specificò che Tutto sommato però i critici incontrano delle difficoltà
quando tentano di definire il Surrealismo con chiarezza e questo perché
cioè la sua natura permeabile e soggettivamente malleabile lo
portò ad avere ripercussioni non solo in ambito estetico ma anche
sociale, politico, linguistico, tecnologico ecc., dato che il movimento
non si limitò a riflettere sulla natura e le possibilità
dell’uomo, o ad indagare intorno all’espressione di particolari
esperienze psicologiche (sogni, visioni, allucinazioni), ma si riversò
in un complesso di comportamenti pratici (morali e politici). Inoltre,
se i principi del Surrealismo vennero plasmati in un periodo più
o meno circoscritto (gli anni venti del Novecento), i loro effetti sono
presenti in maniera rilevante e facilmente identificabili ancora oggi,
in forme espressive ed artistiche tipiche dei nostri giorni per esempio
nei cartelloni pubblicitari, nei videoclip, nelle sceneggiature di film
e così via. Il Surrealismo in Spagna. El público di García Lorca. Il Surrealismo entrò in Spagna specialmente grazie a Juan Larrea,
i cui scritti furono tradotti dal francese da Gerardo Diego; ebbe un grosso
impatto soprattutto con la Generación del 27 ma gli artisti spagnoli,
pur sviluppando un linguaggio nuovo e audace, pur liberando le immagini
dal controllo della logica, non arrivarono agli estremi della creazione
incosciente, preferendo invece piegare i principi del movimento in favore
dell’espressione di angosce personali e sociali. Da questo punto
di vista una delle maggiori voci che si levarono dalla Generación
del 27 fu quella di Federico García Lorca (1898-1936), una figura
carismatica la cui poetica si colloca a cavallo tra la liberazione dell’inconscio
e la ricerca formale, tra la proiezione delle ossessioni personali e il
mito del destino tragico umano, che proprio a causa dell’attenzione
che riponeva nell’estetica formale, così lontana dagli impulsi
espressivi, venne progressivamente allontanato dal nocciolo duro del Surrealismo
spagnolo. Il discorso di tipo metateatrale in cui si cimenta García Lorca
(e che analizzerò più avanti), si fa metafora della vita
umana interiore che scende a compromessi con se stessa: sulla scena, infatti
si contrappongono due tipi di teatro, quello convenzionale, che appaga
le aspettative di un pubblico che va a teatro per non pensare, per “distrarsi”
e quello autentico, sconvolgente in quanto mette allo scoperto le debolezze
di chi assiste, affliggente perché l’autore, denudando se
stesso, costringe lo spettatore a riflettere sul motivo per cui arrossisce
(di rabbia o di vergogna) di fronte alle verdades más inocentes
18. Assistere a El público diventa allora un atto paragonabile
ad una seduta psicoanalitica in cui ciascun individuo coinvolto (autore,
personaggi, spettatori) è spinto a scandagliare la propria interiorità,
a far riemergere i propri desideri repressi, a dar sfogo alle proprie
attitudini naturali, ma anche a constatare le limitazioni alla propria
libertà imposte dalla collettività e comunemente accettate,
a vedersi scegliere, di fronte all’amletico dubbio dell’ essere
o non essere, non la strada più umana ma la meno compromettente. Di giorno è l’uomo a dirigere la sua potenza verso una meta;
ma la notte, quando l’uomo non può vedere nell’oscurità,
è il cavallo che guida l’uomo grazie al suo istinto. I Cuatro Caballos entrano in scena come pensieri insidiosi, che parlano
in una lingua comprensibile al solo direttore, cioè suonando trombe
dorate, invertendo le sillabe delle parole (Blenamiboá 21), o esprimendosi
a versi (nell’autografo: Ja guaá maa taá 22). Essi
turbano la sua tranquillità, in un certo senso lo minacciano con
allusioni ad episodi di vita privata avvenuti in un lontano passato di
cui sono stati testimoni e che il Director non vuole sentire perché
gli danno pena o vergogna (Antes te olían los pies y nosotros teníamos
tres años 23). Lo stato d’animo del Director è contraddittorio
e cerca di mascherarlo attraverso una reazione violenta: è evidente
infatti che benché cerchi di liberarsene (¡Fuera de aquí!
¡Fuera de mi casa, caballos! E più avanti ¡Dame un
látigo! 24), provi nei loro confronti un’attrazione certamente
affettiva, chiamandoli, piangendo: Caballitos míos. Le maschere dentro di noi. In questo capitolo mi soffermerò sul primo aspetto, che si snoda
lungo tutta l’opera in più livelli, complicandone l’interpretazione
e l’individuazione dei ruoli e delle parti, occupandomi del secondo
più avanti. È un uomo decisamente poco autentico, sia emotivamente (coprendo
il suo disagio con un atteggiamento aggressivo), sia fisicamente (facendo
ricorso ad una parrucca, cioè cambiando aspetto esteriore a seconda
delle occasioni e delle persone che incontra). Ma nemmeno i Tres Hombres
risaltano per la loro personalità: indossano tre frac, l’abito
delle formalità ufficiali e delle barbe scure che li rendono uno
uguale all’altro; si presentano al Director con frasi di circostanza: Ben presto però riveleranno le loro vere intenzioni, cioè
spingere il Director a portare sulla scena non drammi finti e convenzionali
ma storie vere, la sua stessa vita, ad esempio. Inizialmente il Director
non vuole cedere alla proposta, pericolosa per lui (Vendría la
mascara a devorarme, cioè se non si rispetta la maschera, simbolo
del convenzionalismo sociale di fronte al quale a volte bisogna arrendersi,
questa può provocare la morte) e per il pubblico: ma poi l’Hombre 1 si impone, spinto dalla necessità di dar
voce alla verità: I quattro personaggi passano dietro il paravento e il prodigio si compie:
come le radiografie fanno vedere ciò che si cela dentro il nostro
corpo, così il paravento spoglia i personaggi dei loro abiti di
scena quotidiani e li mostra nella loro vera grottesca natura. Il Director
si manifesta come Il suo nome è Enrique ma i suoi atteggiamenti sono femminili,
accelerati ed infastiditi: L’Hombre 2 si trasforma in Maximiliana L’Hombre 3, passa dietro al paravento e ne esce L’unico che non subisce trasformazioni è l’Hombre
1: Gonzalo: è il solo, dunque, che si comporta in maniera autentica
e totalmente coerente con se stesso, che non si rassegna a nascondere
il suo amore benché risulti socialmente inaccettabile e scandaloso.
Paradossalmente è anche l’unico che non possiede tratti femminili,
mentre gli altri tre sono figure dalla sessualità ambigua, esseri
androgini, non però eterei ed affascinanti come gli angeli, bensì
materiali e grotteschi come le maschere carnascialesche, come se l’abitudine
al travestimento avesse ormai corrotto in un processo irreversibile il
loro corpo e il loro spirito. Benché si “consegnino” entrambe le figure, non è
chiaro se tentino di difendersi reciprocamente o se ostentino la loro
integrità per ottenere il favore del sovrano (che secondo M. C.
Millán rappresenta la sessualità imposta dal potere), l’Emperador
riconoscerà in Pámpano, la trasposizione dell’Hombre
1, quel “uno” che cerca. La sua sincerità si manifesta nel fatto che non teme di spogliarsi
e di mostrarsi per quello che è, un blocco compatto (ma fragile
perché di gesso), ricoperto di foglie, un elemento naturale, a
differenza dell’altra figura, fatta di campanellini, oggetti artificiali,
chiassosi, simbolo dell’effimero, come il loro suono che si dissolve
immediatamente nell’etere. Ecco quindi la maschera a cui si rassegna l’uomo contemporaneo
ma della quale egli stesso avverte il peso e la rigidità costrittiva.
Se essa, “baroccamente” ci difende coprendo le nostre debolezze,
insicurezze e quindi le nostre emozioni, nell’intimità, di
fronte alla spontaneità e sincerità che esige un rapporto
d’amore, essa non può che rappresentare un impedimento, una
limitazione a qualsiasi movimento spirituale, con il risultato paradossale
di ferirci. Ciò che dovrebbe proteggerci rivela il rovescio distruttivo
della sua medaglia e ci annienta. Il dialogo continua: Questione di punti di vista. Il fatto che l’Hombre 1 non risponda
mi fa sospettare che anche la sua coerenza ed integrità potrebbero
essere una maschera, una superficie che ne nasconde altre mille, invisibili
pure a lui. Rispetto agli altri personaggi, però è l’unico
che si dimostra risoluto nei suoi propositi, deciso ad abbattere ogni
ostacolo del conformismo sociale che gli impedisce di amare ed essere
ricambiato allo stesso tempo. l’ Arlequín Blanco snocciola una serie di parole senza senso
ma che comunicano una sensazione di malessere quasi claustrofobico (Tengo
frío. Luz eléctrica. Pan. Estaban quemando goma. 38), oppure
ripete meccanicamente le parole dell’Hombre 1. Al di là del tentativo di ricostruire il “chi fa cosa”, di scoprire se siamo davanti alla parte autentica del personaggio o alla sua maschera, di stabilire se ci stiamo allontanando dalla sua interiorità o se vi stiamo sprofondando, credo che a questo punto sia più sensato abbandonarsi alla sensazione complessiva, allo spaesamento che i cambi inducono nello spettatore, al caos che provocano gli atteggiamenti fittizi. In fondo la lezione ormai è chiara: siamo ricoperti da maschere e sia che si lascino sia che si tolgano, la scelta comporterà comunque dolore e patimento.
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