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Dietro ai vetri limpidi delle cosiddette “finestre sul mondo” vediamo luoghi distanti nello spazio a portata di mano, abbiamo la possibilità di esplorarli attraverso molteplici punti di vista, di stabilire un contatto grazie a canali di comunicazione sempre più raffinati. È la splendida magia del progresso dei mezzi informatici, il desiderio di onnipresenza e di onniscienza che si è concretizzato. Ci piace usufruire di queste possibilità e, a dire il vero, non ha senso farne a meno.
Tuttavia in questo lavoro ci siamo soffermati sul rovescio della medaglia, non con lo scopo di ammonire o di agire da deterrente nei confronti della tecnologia (sarebbe sciocco e anacronistico) ma come invito a non disprezzare i nostri limiti umani.
La diversa percezione delle distanze che abbiamo maturato grazie all’informatica non ci consente di godere di un’effettiva ubiquità; la massiccia mole di dati che ci giungono su un unico oggetto aumenta paradossalmente l’incompletezza delle informazioni; i mezzi mediatici sono accessibili a tutti e ciò può indurre al sospetto di manipolazione dei messaggi; la direzione spesso univoca dell’informazione (in entrata o in uscita) a lungo andare può risultare frustrante, può rivelare il suo carattere illusorio, può farci sentire soli, trasparenti, spaesati.
Due realtà, dunque, due dimensioni, due mondi, due luoghi distinti, posti uno accanto all’altro, uno dentro l’altro. Sono come due gabbie dalle pareti invisibili ma più spesse ed infrangibili di quelle di una fortezza: le pareti del tempo e della coscienza. E, rinchiuse in esse, due persone: un uomo solo e intraprendente ed una donna irraggiungibile. Questi ed il corposo apparato di “finestre sul mondo” sono gli elementi della nostra breve storia, liberamente ispirata al racconto “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares.

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