(CANTO VENTIQUATTRESIMO)
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(...) ma diciàn quel ch'avvenne di Zerbino:
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che 'l lasciar Durindana sì gran fallo
gli par, che più d'ogn'altro mal gl'incresce;
quantunque a pena star possa a cavallo
pel molto sangue che gli è uscito ed esce.
Or poi che dopo non troppo intervallo
cessa con l'ira il caldo, il dolor cresce:
cresce il dolor sì impetuosamente,
che mancarsi la vita se ne sente.
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Per debolezza più non potea gire;
sì che fermossi appresso una fontana.
Non sa che far né che si debba dire
per aiutarlo la donzella umana.
Sol di disagio lo vede morire;
che quindi è troppo ogni città lontana,
dove in quel punto al medico ricorra,
che per pietade o premio gli soccorra.
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Ella non sa se non invan dolersi,
chiamar fortuna e il cielo empio e crudele.
- Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi
quando levai ne l'Oceàn le vele? -
Zerbin che i languidi occhi ha in lei conversi,
sente più doglia ch'ella si querele,
che de la passion tenace e forte
che l'ha condutto omai vicino a morte.
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- Così, cor mio, vogliate (le diceva),
dopo ch'io sarò morto, amarmi ancora,
come solo il lasciarvi è che m'aggreva
qui senza guida, e non già perch'io mora:
che se in sicura parte m'accadeva
finir de la mia vita l'ultima ora,
lieto e contento e fortunato a pieno
morto sarei, poi ch'io vi moro in seno.
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Ma poi che 'l mio destino iniquo e duro
vol ch'io vi lasci, e non so in man di cui;
per questa bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui,
che disperato nel profondo oscuro
vo de lo 'nferno, ove il pensar di vui
ch'abbia così lasciata, assai più ria
sarà d'ogn'altra pena che vi sia. -
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A questo la mestissima Issabella,
declinando la faccia lacrimosa
e congiungendo la sua bocca a quella
di Zerbin, languidetta come rosa,
rosa non colta in sua stagion, sì ch'ella
impallidisca in su la siepe ombrosa,
disse: - Non vi pensate già, mia vita,
far senza me quest'ultima partita.
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Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi;
ch'io vo' seguirvi o in cielo o ne lo 'nferno.
Convien che l'uno e l'altro spirto scocchi,
insieme vada, insieme stia in eterno.
Non sì tosto vedrò chiudervi gli occhi,
o che m'ucciderà il dolore interno,
o se quel non può tanto, io vi prometto
con questa spada oggi passarmi il petto.
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De' corpi nostri ho ancor non poca speme,
che me' morti che vivi abbian ventura.
Qui forse alcun capiterà, ch'insieme,
mosso a pietà, darà lor sepoltura. -
Così dicendo, le reliquie estreme
de lo spirto vital che morte fura,
va ricogliendo con le labra meste,
fin ch'una minima aura ve ne reste.
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Zerbin la debol voce riforzando,
disse: - Io vi priego e supplico, mia diva,
per quello amor che mi mostraste, quando
per me lasciaste la paterna riva;
e se commandar posso, io vel commando,
che fin che piaccia a Dio, restiate viva;
né mai per caso pogniate in oblio
che quanto amar si può, v'abbia amato io.
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Dio vi provederà d'aiuto forse,
per liberarvi d'ogni atto villano,
come fe' quando alla spelonca torse,
per indi trarvi, il senator romano.
Così (la sua mercé) già vi soccorse
nel mare e contra il Biscaglin profano:
e se pure avverrà che poi si deggia
morire, allora il minor mal s'elleggia. -
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Non credo che quest'ultime parole
potesse esprimer sì, che fosse inteso;
e finì come il debol lume suole,
cui cera manchi od altro in che sia acceso.
Chi potrà dire a pien come si duole,
poi che si vede pallido e disteso,
la giovanetta, e freddo come ghiaccio
il suo caro Zerbin restare in braccio?
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Sopra il sanguigno corpo s'abbandona,
e di copiose lacrime lo bagna,
e stride sì, ch'intorno ne risuona
a molte miglia il bosco e la campagna.
Né alle guance né al petto si perdona,
che l'uno e l'altro non percuota e fragna;
e straccia a torto l'auree crespe chiome,
chiamando sempre invan l'amato nome.
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